Scritto da Cristiano Toni
L’evoluzione del modelli di customer journey: da AIDA al Messy Middle
Lavorando nel mondo della consulenza spesso ho dovuto affrontare progetti partendo dall’analisi del customer journey delle persone in specifici mercati. Questa mia esperienza l’ho spesso poi portata in aula per descrivere agli studenti come è cambiato nel corso degli anni il comportamento che porta una persona a scegliere un prodotto o un servizio. Da qui l’idea di scrivere una breve storia dell’evoluzione dei modelli di marketing utilizzati negli ultimi 100 anni per descrivere i cosiddetti journey. Sono partito dal noto modello AIDA di Elmo Lewis per arrivare al recentissimo Messy Middle di Google. Probabilmente per strada ne avrò perso qualcuno ma va bene così ☺
AIDA (1898) – Elmo Lewis
Sviluppato nel 1898 da Elmo Lewis è stato il primo modelle che prova ad analizzare e misurare il percorso del cliente dalla fase di conoscenza di un prodotto\servizio fino al suo acquisto. Il modello AIDA deve la sua fama, la sua longevità e la sua diffusione d’uso alla sua semplicità. Il modello nato nel tentativo di spiegare le logiche della vendita personale (personal selling), definisce una sequenza Attenzione, Interesse, Desiderio e Azione (in pura gerarchia lineare) che descrive il processo attraverso il quale un venditore conduce un potenziale cliente all’acqusito. Per essere motivati a effettuare effettivamente un acquisto, i clienti devono passare:
- dall’essere consapevoli dell’esistenza di un prodotto – attenzione;
- ad essere abbastanza interessati da prestare attenzione ai benefici e ai vantaggi del prodotto stesso – interesse;
- al desiderio di trarre vantaggio dal prodotto – desiderio;
- la quarta fase, azione, Lewis affermava che sarebbe stata il logico risultato del “tragitto” attraverso le prime tre.
Sebbene il lavoro di Lewis fosse incentrato principalmente sul personal selling, fu rapidamente ripreso dai teorici del marketing e della pubblicità nel corso del secolo successivo. Il modello AIDA ha rappresentato anche la base del modello gerarchico degli effetti (hierarchy of effects theory). Le teorie che seguiranno il modello AIDA proveranno (oltre ad aggiungere altre fasi intermedie) infatti a distinguere il ruolo del marketing come leva ultima per spostare il consumatore all’azione da quello della pubblicità, il cui scopo principale è di muovere il consumatore attraverso le prime tre fasi della sequenza sopra descritta
AIDA rappresenta, come anticipato, il primo dei modelli gerarchici lineari seguito poi da numerose declinazioni indicate nella tabella sottostante, che all’epoca della loro creazione vedevano come primario e forse esclusivo campo di applicazione quello del messaggio pubblicitario:
Anno | Modello | Acronimo | Autore | Caratteristica |
1910 | AICA | Attention, Interest, Conviction, Action | Printers Ink Editorial | La prima menzione del modello gerarchico per uso pubblicitario |
1911 | AIDAS | Attention, Interest, Desire, Action, Satisfaction | Arthur F. Sheldon | Aggiunta “soddisfazione permanente” come parte necessaria del processo di vendita persuasivo e di lungo periodo |
1915 | AICCA | Attention, Interest, Confidence, Conviction, Action | Samuel R. Hall | Sono i passaggi necessari per scrivere un annuncio pubblicitario buono e convincente |
1921 | AIDCA | Attention, Interest, Desire, Caution, Action | Robert E. Ramsay | Come scrivere un messaggio pubblicitario diretto efficace |
1921 | AIDCA | Attention, Interest, Desire, Conviction, Action | Harry D. Kitson | Prime riflessioni sul funzionamento della mente dell’acquirente |
1922 | AIJA | Attention, Interest, Judgment, Action | Alexander Osborn | Focus sul processo creativo / persuasivo nella pubblicità. |
1956 | AIDMA | Attention, Interest, Desire, Memory, Action | Merrill Devoe | Modello che sottolinea l’importanza di diverse sequenze psicologiche nella costruzione di annunci pubblicitari (AIDCA e AIDMA) |
1961 | ACCA | Awareness, Comprehension., Conviction, Action | Russell H. Colley | Modello importante per lo sviluppo di obiettivi pubblicitari specifici e per misurare l’efficacia della pubblicità |
The Funnel (1924) – W. Townsend
Nel 1924, William H. Townsend combinando gli insegnamenti del modello AIDA con il concetto di funnel (imbuto) diede vita al il primo modello di marketing basato sul concetto di dispersione. Pensato per i venditori di obbligazioni (bond)
Andiamo a descrivere le vari fasi che caratterizzano questo modello e il flusso teorico dei consumatori.
- Awareness: il modello vede al vertice dell’imbuto la fase di “consapevolezza” caratterizzata da una massa di potenziali clienti con un problema da risolvere e con un ventaglio ampio di potenziali soluzioni.
- Interest: un sottoinsieme di potenziali clienti esprime il proprio interesse per un particolare gruppo di prodotti o servizi per risolvere il loro problema specifico.
- Desire: un sottoinsieme di potenziali clienti ancora più ridotto rispetto a quello della fase 2 (interesse mostra interesse per un particolare marchio o prodotto e inizia a valutare se soddisfa le loro esigenze.
- Action: l potenziali clienti decidono se quel marchio o prodotto soddisfa le loro esigenze. Se lo fanno positivamente, diventeranno clienti. In caso contrario, continueranno a valutare ciò che offre il mercato fino a quando non troveranno un marchio o un prodotto che li soddisfi.
Nella parte superiore della fase di “consapevolezza” c’è una massa di potenziali clienti che hanno un problema. Alcuni arriveranno alla fase di “interesse” dopo aver deciso che la classe di prodotto può risolvere il problema, mentre altri si ritireranno e sceglieranno un’altra classe. Successivamente, alcuni nella fase di “interesse” arriveranno alla fase di “desiderio” mentre altri abbandoneranno, e così via. È per questo motivo, dal punto di vista di un’azienda, il percorso del cliente è stato paragonato ad un imbuto. Si parte con molti potenziali clienti in alto e si finisce con solo pochi clienti effettivi in basso.
Esaminando oggi il tipico journey di un cliente, ci si accorge di come il funnel è formato sicuramente da più componenti rispetto a quanto inizialmente proposto da Elias St. Elmo Lewis. In particolare negli anni è cresciuta l’importanza di due fasi: quella della loyalty e della advocacy. Un’esperienza positiva del cliente dopo l’acquisto porta il cliente non solo a ripetere gli acquisti, ma a recensire positivamente il marchio (passaparola). Due dati a supporto dell’importanza di queste due fasi:
- un aumento del 5% nella fidelizzazione dei clienti può aumentare i profitti di un’azienda del 95%. (fonte Harvard Business School)
- l’88% dei consumatori si fida delle recensioni online e delle raccomandazioni personali piuttosto che dei messaggi pubblicitari (fonte: Trustpilot)
DAGMAR (1961) – Russell Colley
Questo modello nasce con lo scopo di definire gli obiettivi delle campagne pubblicitarie e per misurarne quindi i risultati. Non è quindi un vero e proprio modello di marketing, ma la sua importanza risiede nel aver aggiunto un’importante fase di pre-consapevolezza (pre-awareness) al funnel tradizionale. Da qui l’acronimo DAGMAR espressione di Defining Advertising Goals to Measure Advertising Results (definizione degli obiettivi pubblicitari per misurare i risultati)
L’approccio DAGMAR nasce da una osservazione semplice ma molto forte in termini operativi fatta da Colley: sebbene le aziende investissero soldi in pubblicità, dovevano poi investire molto tempo in altre attività di marketing per ottenere una misura del ROI della pubblicità stessa. Questo semplicemente perché il ROI della pubblicità era sconosciuto.
Le 2 cose fondamentali su cui poggia il modello DAGMAR sono:
- Creazione di una lista di task per la comunicazione finalizzati al raggiungimento degli obiettivi
- Definizione dell’obiettivo delle task di comunicazione in modo da rendere i risultati misurabili
A) I compiti della comunicazione coinvolti nell’approccio DAGMAR
Una campagna di marketing è sempre figlia di una combinazione tra un’attività di advertising, di branding e possibilmente di servizio clienti.
Per soddisfare la sua esigenza di misurare l’efficacia della pubblicità e quindi il suo specifico ROI Russell Colley ha asserito che la creazione di un’attività pubblicitaria (che coinvolge le comunicazioni tra l’azienda e il consumatore) è di esclusiva responsabilità del dipartimento Comunicazione e non del Marketing (che ha un ruolo olistico e quindi deve guardare all’intera organizzazione).
La lista dei compiti in un’attività di comunicazione in DAGMAR è quindi la seguente:
- Awareness (Consapevolezza): attività di comunicazione volte a rendere il consumatore consapevole del marchio o del prodotto.
- Consideration (Comprensione) – attività che devono aiutare il consumatore a comprendere gli attributi e le caratteristiche del prodotto e cosa può fare il prodotto per il consumatore.
- Conviction (Convincimento) – L’attività di comunicazione devono convincere il cliente che questo prodotto era destinato a loro, che può soddisfare le loro esigenze.
- Action (Azione) – Alla fine, dopo l’attività di convincimento, il cliente doveva essere invogliato ad agire. Ad acquistare il marchio
Tuttavia, nel modello DAGMAR, il problema non si esaurisce con la semplice creazione della lista delle attività di comunicazione. Perché creare questo elenco risulta un processo incompleto se gli obiettivi della pubblicità non sono noti.
Se non sai PERCHÉ (potremmo far riferimento al più recente start with why) stai comunicando al cliente, come comunicherai? DAGMAR ha quindi coinvolto anche la definizione degli Obiettivi per la comunicazione.
B) Definizione degli obiettivi nell’approccio DAGMAR.
Il secondo compito e forse il più importante del modello DAGMAR è quello di definire gli obiettivi della pubblicità o dei compiti delle attività di comunicazione che devono essere sviluppati. Una volta definiti gli obiettivi, la misurazione dei risultati pubblicitari è relativamente più semplice.
Con questa mossa, Russell Colley ha anche dato maggiori responsabilità al reparto Comunicazione di una azienda. Non solo questo reparto è responsabile degli annunci pubblicitari, ma anche di quanto è in grado di comprendere l’obiettivo da raggiungere e di come incorporare questo obiettivo nelle attività di comunicazione da sviluppare ed infine dei risultati finali (sarebbe un bel approccio da far seguire anche alle grandi agenzie di comunicazione dei nostri giorni, non pensate?! ☺ )
Gli obiettivi della comunicazione nel modello DAGMAR devono quindi essere:
- Concreti e misurabili – devono essere una dichiarazione precisa di ciò che l’inserzionista vuole ottenere attraverso la comunicazione. Vuole rafforzare l’immagine del marchio? accrescerne l’equity? penetrare in nuovi mercati? aumentare le vendite complessive?
- Definire l’audience di destinazione – Prima che una attività di comunicazione inizi, il pubblico di destinazione deve essere definito nel modo più preciso possibile. Ti rivolgi a giovani, adulti, anziani?
- Grado di cambiamento ricercato – Quale livello di percezione, atteggiamento o consapevolezza del cliente vuoi cambiare? Se un cliente è a conoscenza del prodotto, vuoi che il suo atteggiamento negativo cambi in positivo? Oppure, se il mercato è completamente inconsapevole, vuoi che l’intero mercato sia consapevole o solo parzialmente il gruppo in target?
- Orizzonte temporale – Per raggiungere gli obiettivi delle attività di comunicazione, quanto tempo ti sei dato? Un periodo di tempo corretti definito a priori permette una migliore misurabilità delle campagne di comunicazione.
L’approccio DAGMAR viene utilizzato ancora oggi da molti planner per impostare piani di comunicazione e marketing.
Moment of Truth (1986) – J. Carlzon
Nel 1986 Jan Carlzon, ex presidente della Scandinavian Airlines pubblica Moments of Truth, nel suo libro, Carlzon definisce il momento della verità in ambito business in questo modo:
“Ogni volta che un cliente entra in contatto con un qualsiasi aspetto di un’azienda, per quanto remoto, è un’opportunità per farsi un’idea dell’azienda stessa.”
Alla base dell’idea di Carlzon un concetto molto semplice: per una azienda le sue uniche vere risorse sono i clienti soddisfatti, che si aspettano di essere trattati come individui e non come semplici acquirenti.
Partendo da questo presupposto, Jan Carlzon prese la gestione di una compagnia aerea in fallimento (Scandinavian Airlines) e l’ha trasformata in una delle aziende aeree più rispettate del settore.
Alcuni esempi di momenti di verità individuati da Jan Carlzon (nella sua esperienza in Scandinavian) sono quelli in cui un cliente:
- Chiama la compagnia per effettuare una prenotazione per un volo,
- Entra in aeroporto e ritiri il biglietto alla biglietteria,
- Controlla i propri bagagli al check-in,
- Viene accolto al gate,
- È assistito dagli assistenti di volo a bordo dell’aeromobile,
- È accolto a destinazione.
Tutti questi esempi sono stati nella vita professionale di Carlzon i principali moment of truth tutti caratterizzati dalla presenza di persone a rappresentare il suo marchio. Per questa ragione Carlzon fa riferimento al modello MOT come a un modo diverso di gestire le aziende invertendo la tradizionale piramide gerarchica. Secondo l’autore, a causa della crescita dei mercati e di un sostanziale aumento della concorrenza, è fondamentale che le aziende siano guidate dal cliente piuttosto che dal prodotto.
Per Carlzon, un’azienda orientata al prodotto può essere facilmente sostituita da un nuovo concorrente che offre un prodotto simile a un costo inferiore, mentre un’azienda orientata al cliente è in grado di generare più soddisfazione e quindi più fedeltà dal cliente con un aumento significativo del lifetime customer value.
Ovviamente nelle aziende customer driven, i manager devono fornire ai dipendenti in prima linea il potere e le informazioni necessarie per soddisfare le esigenze dei clienti con agilità e cortesia. Per Carlzon, la ridistribuzione delle responsabilità è presupposto fondamentale per aumentare il numero di clienti soddisfatti e garantire un vantaggio competitivo all’azienda stessa.
ATR-N (1997) – Ehrenberg
Il modello di Ehrenberg sottolinea rispetto ai modelli visti precedentemente l’importanza dell’esperienza e dell’interazione post-acquisto (Nudges). La sua costruzione parte proprio da una domanda che si è posto l’autore “come fidelizzare i consumatori ai nostri marchi e prodotti?” Quindi il modello si propone di esaminare il comportamento dei consumatori partendo proprio da questa prospettiva.
Il modello ATRN introdotto da Ehrenberg e mostrato in basso rappresenta l’idea chiave dell’approccio comportamentista. L’approccio comportamentista sostiene che le decisioni di acquisto di molti consumatori sono così ripetitive che portano a un basso coinvolgimento dei consumatori.
In sintesi il modello afferma che i consumatori che fanno i loro acquisti ripetitivi non sono inclini a cambiare e in caso di second moment of truth positivo continueranno a fare acquisti dei loro marchi o prodotti abituali. Ciò significa che i consumatori che in molti casi hanno un’esperienza di prodotto “sufficientemente adeguata” a loro bisogni continuano a rimanere nella loro fase di “rinforzo”.
Tuttavia, a un certo punto i consumatori passano alla fase di “spinta” (nudging) e iniziano a cercare nuovi prodotti e marchi. Ma quando i consumatori cercano qualcosa di nuovo è perché è venuta meno la loyalty verso una marca? Spesso si tratta solo di voglia di diversità e della necessità di fare nuove scelte. Non è un caso che in molte categorie di prodotti, soprattutto alimentare, le marche sono sul mercato con differenti gusti e sapori. Questa ampiezza di offerta permette ai marchi di mantenere i consumatori all’interno della propria base clienti anche nel caso di sollecitazioni o di semplice ricerca di varietà.
Il modello ATR-N si incastra nel dibattito tra le teorie forti e deboli della pubblicità che incarnano i due punti di vista opposti sull’efficacia del messaggio pubblicitario (vedi i libri di Fill C. (2013, 2009) che trattano delle due teorie):
La teoria forte
Questa teoria presuppone che la pubblicità possa creare un cambiamento nella conoscenza, negli atteggiamenti, nelle convinzioni o nel comportamento di un consumatore, per un marchio può aumentare le vendite e generare un cambiamento a lungo termine nelle decisioni di acquisto. Questa teoria presume che i consumatori siano “incapaci di elaborare le informazioni in modo intelligente”.
La teoria debole
Questa teoria supportata anche da Ehrenberg (1988, 1997) si oppone all’altra, ipotizza che le decisioni di acquisto dei consumatori siano guidate dall’abitudine piuttosto che dall’esposizione alla pubblicità. Il modello di Ehrenberg accetta il fatto che alcune persone affermano di non essere influenzate dai messaggi pubblicitari e possono essere stimolate da una serie di altre cose, ad es. passaparola, vendita personale, ecc. A differenza della teoria forte che pensa che la pubblicità possa cambiare la conoscenza, la teoria debole pensa che la pubblicità sia in grado di migliorare la conoscenza ma non il processo di conversione.
First and Second Moments of Truth (2005) – A.G. Lafley
Circa 20 anni dopo la formulazione del modello Moment of Truth, A.G. Lafley (Presidente e CEO di Procter & Gamble) propone la sua versione aggiornata. Piuttosto che concentrarsi sul servizio clienti come aveva fatto Carlzon, Lafley pone le basi del suo approccio sul mercato delle vendite al consumo (come potrebbe essere diversamente visto il suo ruolo in P&G?!).
Per Lafley il rapporto tra marca e cliente si gioca su due momenti di verità (in seguito ne ha aggiunto un terzo):
- FMOT – First Moment of Truth: Il primo momento di verità è quando il cliente guarda un prodotto. Può essere in negozio o online. Il FMOT è quindi focalizzato sul momento in cui un potenziale cliente incontra il prodotto o servizio per la prima volta. Di solito, il FMOT dura solo pochi secondi e può includere anche momenti come la lettura di un articolo che menziona il prodotto o l’ascolto di una presentazione da un rappresentante. L’impressione immediata che il potenziale cliente può avere dipende da una buona presentazione o dalla capacità dell’azienda o del punto vendita di mostrare chiaramente come il prodotto può soddisfare le esigenze del pubblico. Questo breve momento avrà un impatto importante sul proseguimento del “rapporto” tra la persona e il prodotto.
- SMOT – Second Moment of Truth: Il secondo momento di verità è quando il cliente acquista effettivamente il prodotto e lo utilizza. In questa fase il cliente sperimenta veramente ciò che il prodotto offre. Ciò può verificarsi talvolta anche prima dell’acquisto del prodotto, ad esempio durante una dimostrazione pratica di un nuovo telefono, ma frequentemente accade dopo un acquisto, soprattutto in epoca moderna attraverso lo shopping online in cui un cliente non sperimenta veramente il prodotto fino al suo arrivo a destinazione. Mentre uno SMOT che si verifica prima dell’acquisto avrà un’influenza maggiore sul fatto che un cliente pagherà per un servizio o prodotto, uno SMOT che si verifica in seguito avrà comunque un impatto importante sulla soddisfazione del cliente e quindi sulla reputazione del prodotto.
- UMOT – Ultimate Moment Of Truth: è il terzo momento di verità legato alle recensioni e ai feedback dei clienti sul prodotto. È la condivisione della loro esperienza con il prodotto con l’azienda, con gli amici, i colleghi, i familiari, ecc. Pur non essendo parte integrante del modello formulato da Lafley nel 2005, l’UMOT (o TMOT come talvolta è definito) è stato presto aggiunto da Procter & Gamble per descrivere la relazione tra cliente e prodotto. La capacità del prodotto di soddisfare le esigenze del cliente, così come gli sforzi dell’azienda per fornire un’esperienza piacevole lungo il percorso di acquisto, plasmeranno la risposta emotiva del pubblico su ciò che ha acquistato. Durante l’UMOT, un cliente potrà scegliere di condividere le proprie opinioni con l’azienda che lo ha fornito il prodotto\servizio, scrivere una recensione online e fornire le proprie opinioni a familiari, amici e colleghi. Questi take away influenzeranno non solo le decisione di ri-acquisto dei clienti ma potrebbero rappresentare lo Zero Moment Of Truth per altre persone.
The McKinsey consumer decision journey (2009)
Nel 2009, McKinsey dichiara “fuori epoca” il tradizionale modello ad “imbuto”, quello in cui i consumatori iniziano
Il proprio percorso di scelta di un prodotto o di un servizio con un determinato una serie di marchi in testa e poi li riduce progressivamente fino alla scelta definitiva di acquisto.
Con la proliferazione di media e di prodotti infatti c’è la necessità per le aziende di trovare nuovi modi per far includere i loro brand nella “lista” iniziale che i consumatori definiscono quando iniziano il loro percorso decisionale. Il 2009 è anche l’anno del definitivo passaggio da una comunicazione unidirezionale (brand ???? consumatore) ad una conversazione bidirezionale (brand ???????? consumatore) con la corrispondente crescita di importanza dei servizi di assistenza cliente tramite le piattaforme digitali e della gestione del cosiddetto word of mouth.
Il processo decisionale del consumatore si evolve quindi grazie alla tecnologia che permette di valutare i prodotti e servizi più attivamente, permettendo alle persone si aggiungere e rimuovere le proprie scelte nel tempo. Il processo decisionale si trasforma quindi da imbuto ad un journey circolare con quattro fasi:
- considerazione iniziale: il consumatore prende in considerazione una serie iniziale di marchi in base alla percezione che ha dei brand e all’esposizione degli stessi nei diversi punti di contatto;
- valutazione attiva o processo di ricerca di potenziali prodotti / servizi da acquistare: i consumatori aggiungono o sottraggono i vari brand mentre valutano ciò che vogliono;
- chiusura, quando i consumatori acquistano il prodotto / servizio;
- post-acquisto, quando i consumatori utilizzano il prodotto / servizio acquistato: dopo l’acquisto di un prodotto o servizio, il consumatore si costruisce delle aspettative basate sull’esperienza per alimentare il successivo processo decisionale
Il cambiamento fondamentale di questo modello rispetto a quelli visti in precedenza risiede nell’equilibrio nel processo decisionale tra brand e consumatore. Il modello McKinsey suggerisce infatti che i consumatori sono saldamente al posto di guida in questo processo e che per i brand non è più tempo di comunicazione unilaterale per influenzare le decisioni di acquisto ma nasce e cresce la necessità di coinvolgimento del consumatore.
Nel 2015 McKinsey aggiorna nuovamente il suo modello attraverso il The accelerated loyalty journey .
Nel tentativo di recuperare il ritardo accumulato nei confronti delle nuove piattaforme digitali anche i brand accrescono significativamente i propri investimenti in nuove tecnologie per cercare di riguadagnare rilevanza nei confronti dei consumatori ed esercitare una maggiore influenza sulle loro decisioni di acquisto.
In questo contesto caratterizzato da campagne di comunicazione significativamente automatizzate, personalizzate, basate sull’interazione tra brand e persone anche il consumatore evolve nel suo processo decisionale, accelerando ed eliminando (o riducendo i tempi) le fasi di considerazione e valutazione.
In realtà l’aggiornamento del modello McKinsey nella sua versione “accelerata” fu preceduto da due altre proposte.
- Cluster Funnel di Brian Solis
- Dynamic Customer Journey di Altimeter
Cluster Funnel [2013] – Brian Solis
Nel corso degli anni, come abbiamo sopra descritto, le aziende hanno sviluppato strategie di vendita, comunicazione e marketing e attorno al modello funnel tradizionale. Ancora oggi il modello è ampiamente utilizzato. Consapevolezza, interesse, desiderio, azione, descrivono i passi che un cliente può intraprendere nel prendere una decisione. In questo modello il processo di coinvolgimento del cliente è progettato per guidare le persone lungo questo percorso lineare. Solis evidenzia però come In qualsiasi momento, l’attenzione dei consumatori, il loro interesse e le azioni compiono potrebbe deviarli e farli uscire da questo teorico imbuto. Per sottolineare questo aspetto e dimostrare come il ciclo di vita di un cliente se visualizzato in forma aggregata viene interrotto Solis ha definito il cosiddetto Cluster Funnel.
Per Solis senza consapevolezza non ci può essere considerazione. Pertanto, le aziende che investono in varia misura ed efficacia in strategie di marketing, pubblicità e comunicazione devono capire che per attirare l’attenzione del cliente è necessario uno stato di coinvolgimento perpetuo. L’attenzione del consumatore non è un interruttore che si può accendere e spegnere a nostro piacimento. Il rumore assordante che i clienti sperimentano continuamente li ha costretti ad adattarsi, a creare un meccanismo di difesa per escludere la raffica costante di messaggi di marketing e campagne a cui sono sottoposti.
In questo contesto (siamo nel 2013) Solis evidenzia sì l’importanza della canalizzazione del cliente ma metteva in allerta le aziende nella scelta dei canali da utilizzare per attrarre l’attenzione dei consumatori.
Solis si\ci chiedeva?
Cosa succederebbe se le aziende investissero tempo e risorse nei posti sbagliati? E se dove pensiamo di poter influenzare i clienti o convincerli a notarci non è affatto dove la loro attenzione è effettivamente focalizzata?
Il mercato per Solis era già stato interrotto da una serie di rivoluzioni tecnologiche abbinate ad un epoca di responsabilizzazione individuale. I clienti non solo sono più informati, ma le loro aspettative sono maturate, evolute. Il fattore “C” (come connessione) nel ha dato vita ad un nuovo genere di consumatori sempre connessi. La conseguenza? clienti imparano a conoscere le marche in modo diverso. Il modo in cui prendono le decisioni non segue più un percorso lineare. Il modo in cui vengono i consumatori sono influenzati evolve per la partecipazione di più voci ed attori. Ciò che una volta era semplicistico e lineare ora non è lo è più e la migliore rappresentazione è quella di un percorso scanalato molto più dinamico e connesso.
Dynamic Customer Journey [2013]
Ispirato dal lavoro di McKinsey e dalla ricerca dello stesso Solis durante la stesura di The End of Business as Usual, Altimeter re-immagina il tradizionale funnel in un percorso ellittico costante che tende a ripetersi.
Le fasi del Dynamic Customer Journey sono familiari con questo descritto in precedenza in quanto riflettono quelle del funnel tradizionale:
- Awareness
- Consideration
- Evaluation
- Purchase
- Experience
- Loyalty
- Advocacy
Tuttavia, ogni passaggio è unico nei fattori che influenzano il modo in cui i consumatori scoprono, analizzano, scelgono e condividono un prodotto o servizio. I dispositivi che i consumatori usano per cercare e acquistare un prodotto, le persone che influenzano le loro scelte, i contenuti che li informano, i social media su cui cercano un dialogo, le esperienze collettive condivise e le conversazioni in tempo reale che danno forma alle loro decisioni, sono tutti elementi che aggiungono elementi nel journey decisionale. Che introducono dubbi, nuovi brand o convalidano idee ed impressioni.
L’aspetto forse più importante del Dynamic Customer Journey è nell’evidenziare come ogni fase alimenta un archivio online pubblico di esperienze condivise che influenzano in modo rilevante tutti coloro che stanno intraprendendo un decision journey assimilabile. Il paradigma è semplice: senza un’influenza positiva da parte dei consumatori non c’è speranza di preferenza da parte di altri consumatori. E senza esperienze positive non ci può essere alcuna possibilità di loyalty e advocacy.
ZMOT (2011) – Google
L’idea di un momento zero di verità è l’aggiunta più recente al modello di P&G. ZMOT è stato introdotto da Google (https://www.thinkwithgoogle.com/marketing-strategies/micro-moments/zero-moment-truth/) per adattare l’approccio basato sui Moment of Truth al moderno percorso del cliente online e principalmente riguarda il momento in cui una persona inizia a cercare informazioni su un prodotto o servizio a cui è interessata. In questo momento, un cliente troverà recensioni e ulteriori informazioni sul prodotto e sulla base di queste deciderà se andare avanti o meno nel suo journey. Sebbene le aziende non siano in grado di controllare tutte le recensioni online, possono influenzare positivamente la loro reputazione online attraverso l’interazione con il pubblico e la qualità del prodotto, il che potrebbe portare a buone recensioni in grado di incoraggiare le persone a continuare il loro viaggio con la marca.
Less than Zero Moment of Truth
Una delle aggiunte più recenti all’ambito dei momenti di verità, è il Momento di verità Meno di zero (in inglese Less than Zero Moment of Truth ) coniato da Eventricity (https://www.eventricity.biz/the-less-than-zero-moment-of-truth/) e progettato per guardare al primo caso in assoluto di un potenziale cliente che inizia il proprio viaggio e interagisce con un marchio. In questo momento, è successo qualcosa nella vita di un cliente per interessarsi a un prodotto o servizio. Mentre la ricerca di informazioni su un prodotto è vista come Momento Zero della Verità, il Momento Meno di Zero avviene ancor prima che questa ricerca abbia inizio. In questo momento, un’azienda può raggiungere proattivamente un cliente tramite i social media, l’email marketing, la tradizionale pubblicità e altro ancora prima che il cliente si rivolga a loro per ulteriori informazioni. Sebbene ciò richieda un targeting e un monitoraggio avanzati delle attività dei clienti, questa strategia proattiva può ridurre la probabilità che parte dell’audience in target scelga un concorrente.
MESSY MIDDLE (2020) – Google [Alistair Rennie e Jonny Protheroe]
A Luglio 2020 Google (attraverso il team di consumer insights) presenta un innovativo modello alla base dei processi di scelta dei consumatori. Il modello è denominato Messy Middle (il disordine di mezzo….proverei a tradurlo). Alla base di questa proposta c’è il comportamento delle persone nel prendere decisioni: un modo tutt’altro che lineare. Anzi Google ci sottolinea come le persone prendono le decisioni in modo sempre più disordinato. Partendo quindi dalla mancanza di linearità e da una rete di contatti con le marche complessa e diversa da consumatore a consumatore Google cerca di spiegarci il modo in cui gli acquirenti elaborano tutte le informazioni che scoprono lungo il percorso di scelta di un prodotto o servizio e come quel processo influenza ciò che le persone alla fine decidono di acquistare.
Con l’evolversi delle piattaforme digitale a disposizione del consumatore, il web si è trasformato da uno strumento per confrontare i prezzi in uno strumento per confrontare praticamente tutto. Google ce lo mostra evidenziano come è cambiato il comportamento di acquisto nel corso degli anni su il suo motore di ricerca. Ce lo fa attraverso un esempio significativo: l’evoluzione dei termini cheap e best. A livello mondiale, l’interesse di ricerca per best ha superato di gran lunga l’interesse per cheap.
Per definire quindi questo nuovo modello sul processo decisionale dei consumatori Google ha chiesto il supporto di professionisti delle scienze comportamentali. L’obiettivo, come anticipato, era di comprendere come i consumatori prendono decisioni in un contesto online caratterizzato da ampia scelta e informazioni illimitate. Il risultato finale? le persone per gestire ed affrontare concetti complessi e su larga scala sfruttano i bias cognitivi radicati a fondo nella mente. Bias che esistono da molto prima di Internet.
Cosa sono i bias cognitivi?
Il concetto di Bias Cognitivo risale agli inizi degli anni ’70 grazie agli studi di Kahneman e Tversky focalizzati alla comprensione del processo decisionale delle persone in contesti caratterizzati da ambiguità, incertezza o scarsità delle risorse disponibili (per questi studi Kahneman vinse il Nobel per l’economia nel 2002).
Il bias cognitivo è un termine generico che si riferisce ai modi sistematici in cui il contesto e la struttura delle informazioni influenzano il giudizio (o il pregiudizio) e il processo decisionale degli individui. Esistono molti tipi di bias cognitivi che influenzano gli individui in modo diverso, ma la loro caratteristica comune è che conducono a un giudizio e a un processo decisionale che devia dall’oggettività razionale.
In alcuni casi, i bias cognitivi rendono il nostro pensiero e il nostro processo decisionale più veloce ed efficiente. Il motivo è che non ci fermiamo a considerare tutte le informazioni disponibili, poiché i nostri pensieri procedono su alcuni canali anziché su altri. In altri casi, invece, i bias cognitivi possono portare a errori esattamente per lo stesso motivo. Un esempio è il pregiudizio di conferma, in cui tendiamo a favorire le informazioni che rafforzano o confermano le nostre convinzioni preesistenti. Ad esempio, se crediamo che gli aerei siano pericolosi, una manciata di storie sugli incidenti aerei tende ad essere più memorabile di milioni di storie su voli sicuri e di successo. Pertanto, la prospettiva di un viaggio aereo equivale a un rischio (evitabile) per una persona incline a pensare in questo modo, indipendentemente da quanto tempo è passato dall’ultima notizia di una catastrofe aerea.
I bias cognitivi influiscono sulle decisioni di acquisto delle persone?
Sulla base di quanto anticipato sopra Google aggiorna i modelli decisionali mettendo al centro del suo approccio il disordine (messy), in cui i consumatori sono sopraffatti e confusi, uno spazio schizofrenico tra il primo trigger e l’acquisto finale.
Uno spazio centrale identificato da esplorazione (attività espansiva) e valutazione (attività riduttiva) in cui le persone cercano informazioni su brand e prodotti (attraverso un’ampia varietà di fonti come motori di ricerca, social media, siti web, aggregatori) e poi valutano tutte le opzioni a loro disposizione. Ripetendo questo loop esplorazione-valutazione tutte le volte indispensabili per prendere una decisione finale di acquisto. Nel loop appena descritto i bias cognitivi influenzano i motivi che spingono i consumatori a scegliere un prodotto piuttosto che un altro.
Sebbene in letteratura siano stati elencati più di 100 di bias, Google ne mette in evidenza 6:
- Euristica di categoria: sono scorciatoie che ci aiutano a prendere una decisione rapida e soddisfacente all’interno di una determinata categoria. Un esempio potrebbe essere quella di concentrarsi sul numero di megapixel della fotocamera al momento dell’acquisto o sul numero di gigabyte di dati inclusi in un contratto telefonico.
- Potere dell’immediatezza: descrive la nostra tendenza a volere le cose immediatamente. Gli esseri umani sono programmati per vivere nel presente: l’evoluzione dell’uomo e le sue capacità di sopravvivenza dipende infatti dalla nostra capacità di affrontare i problemi immediatamente piuttosto che sulla nostra capacità di pianificare il futuro. Il Power of now spiega quindi il successo e l’attrattività dei download istantanei o delle consegne in 24 ore rispetto a servizi in cui è necessario attendere.
- Prova sociale: descrive la tendenza a copiare il comportamento e le azioni di altre persone in situazioni di ambiguità o incertezza. Internet ha digitalizzato recensioni passaparola e raccomandazioni, rendendo molto più facile per le persone fare affidamento sulla prova sociale come scorciatoia per il processo decisionale. A volte ne siamo consapevoli, per esempio se ci prendiamo il tempo di leggere le recensioni dei consumatori, ma spesso ne siamo influenzati inconsciamente. Ad esempio, senza pensare, potremmo fare clic su un annuncio che include una valutazione di quattro o cinque stelle, attratti da quella che potrebbe sembrare la scelta più popolare.
- Bias di scarsità: si basa sul principio economico che le risorse rare o limitate sono più desiderabili. La scarsità assume tipicamente una delle tre forme:
- Tempo limitato: quando c’è un limite di tempo alla disponibilità di un prodotto (crea una scadenza che spinga le persone ad agire prima che il tempo finisca).
- Quantità limitata: le forniture limitate o rare sono percepite dalle persone come una minaccia alla loro libertà di scelta, innescando la reazione di combattere tale minaccia e garantire quindi l’accesso alla risorsa stessa.
- Accesso limitato: accesso limitato ad informazioni, gruppi, spazi. Le persone attribuiscono un valore maggiore alle funzionalità limitate perché l’esclusività li fa sentire speciali.
- Bias di autorità: descrive la tendenza a modificare le nostre opinioni o comportamenti uniformandoli a quelli di qualcuno che consideriamo un’autorità su un determinato argomento. Quando non siamo sicuri, tendiamo infatti a seguire l’esempio di persone che riteniamo credibili e esperti ed informati in un determinato contesto.
- Potere della gratuità: descrive il potere speciale di un prezzo pari a zero (un regalo incluso con un acquisto, anche se non correlato al prodotto acquistato, può essere un ottimo incentivo).
Conclusioni
Al di là delle evoluzioni del Costume Journey evidenziate dalla letteratura ed in parte da questa articolo appare evidente nella costruzione di una strategia di marketing (ma non solo) l’importanza di studiare quello che il “viaggio” di una persona nelle sue decisioni di acquisto o di scelta di un prodotto\servizio.
È evidente come l’analisi dei dati disponibili, sia da fonti interne sia esterne, per un’azienda rappresenta il requisito fondamentala da cui partire per ricostruire il percorso e attivare le leve migliori per accrescere la propria base clienti e il loro livello di fidelizzazione.
In questo scenario il Gruppo RES è in grado di mettere in campo un ventaglio di competenze molto ampie che va dalla valorizzazione del dato alla consulenza strategica, passando per la marketing automation. Scopri di più sui servizi che offriamo cliccando qui.