Ormai da settimane si parla molto di Smart Working. Fin dai primi decreti di febbraio e marzo 2020 questo concetto è stato ‘sdoganato’ per aziende di piccole e grandi dimensioni, che da un giorno all’altro si sono trovate a dover ripensare i processi di lavoro e le relazioni tra i dipendenti.

Cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta con Simone Colombo, cofondatore di HIC srl ed esperto di strategie di employee caring.

Simone, l’emergenza sanitaria ha improvvisamente costretto la maggior parte delle aziende italiane a ricorrere allo Smart Working per tutti i dipendenti. Com’è la situazione?

In realtà quello che è stato autorizzato, o meglio forzato, è il telelavoro, ovvero la possibilità di trasferire la sede lavorativa presso il domicilio del lavoratore.

All’inizio molti hanno avuto l’impressione che si trattasse di una soluzione di breve durata e che fosse relativamente semplice organizzare le attività da remoto. Ora che il periodo di Smart Working è stato prolungato fino al 3 aprile 2020 e con ogni probabilità verrà ancora prolungato, potremo verificare se le aziende hanno davvero adottato e stanno sviluppando la cultura dello Smart Working.

Fino ad oggi gran parte degli accordi di Smart Working avevano previsto solo alcuni giorni la settimana e per particolari categorie. Lavorare da remoto per 4/5 settimane consecutive metterà a dura prova le organizzazioni e i risultati attesi.

Cosa significa allora fare veramente Smart Working e non telelavoro? Quanto conta la comunicazione interna?

Fare Smart Working non significa semplicemente eseguire certe attività da remoto, ma lavorare per obiettivi. In pratica è una diversa organizzazione del lavoro, che richiede una definizione chiara degli obiettivi, delle modalità di relazione all’interno del team e una comunicazione semplice, immediata, diffusa. Comunicare tanto potrebbe non essere efficace, mentre comunicare poco potrebbe non fornire i giusti dettagli per l’attività da svolgere o per permettere ai propri colleghi di svolgerla al meglio.

I dati forniti dall’Osservatorio sullo Smartworking del Politecnico di Milano dicono che tra i fattori critici evidenziati dai manager c’è la condivisione di informazioni all’interno del team di smartworker (11%).  Fra le altre criticità evidenziate la più frequente è la percezione di un senso di isolamento circa le dinamiche dell’ufficio (18%), seguita dal maggiore sforzo di programmazione delle attività e di gestione delle urgenze (16%). Altre difficoltà sono legate alle distrazioni esterne, come la presenza di altre persone nel luogo in cui si lavora (14%), alla necessità di frequenti interazioni di persona (13%) e alla limitata efficacia della comunicazione e della collaborazione virtuale (11%).

Come si può far fronte a queste criticità?

La soluzione è quella di utilizzare strumenti di coordinamento quali applicazioni di project management o piattaforme di comunicazione interna più evolute, in modo da avere accesso alle informazioni e favorire il coordinamento delle attività.

Per chi lavora a distanza qualche riunione in più da remoto è utile per chiarirsi e comprendere meglio le problematiche, tenendo alto il livello di collaborazione e di appartenenza del gruppo.

Comunicare a distanza significa anche comunicare apertamente feedback ai propri colleghi, scegliere l’atteggiamento giusto nel condividere i propri pensieri, essere sempre aperti al confronto, coinvolgere il team nelle decisioni importanti. Certo, tutto questo è sempre importante a prescindere dal fatto che si lavori in Smart Working, ma la distanza e la diversa modalità di organizzazione del lavoro potrebbe far dimenticare questi aspetti, che restano comunque rilevanti per il buon funzionamento di un team.

Lavorare da casa significa anche lavorare per molto tempo da soli. Ci possono essere dei risvolti psicologici per i lavoratori e un effetto sul senso di appartenenza ad una organizzazione?

Lavorare da casa aumenta il senso di solitudine, ma soprattutto il livello di isolamento dall’organizzazione, favorendo il disingaggio. Lavorare in modalità agile riduce le occasioni di confronto con i colleghi, quelle in cui si condividono competenze e nelle quali si può ricevere aiuto in modo immediato per task nuovi e poco familiari. Oltre a questo si riduce la possibilità di condividere momenti di pausa, come quello alla macchinetta del caffè.

In un certo senso, i colleghi rappresentano una fetta importante del circolo sociale di molte persone e lavorare da remoto può essere difficile, soprattutto per chi ha più bisogno di interazione. Siamo esseri umani e la relazione è alla base della nostra esistenza. Per questo motivo è necessario mantenere una comunicazione aperta, supportata magari da strumenti di instant messaging o da sistemi di feedback continuo che verifichino il polso della situazione. Sempre di più vengono sviluppate ‘piazze virtuali’ – ovvero veri e propri social aziendali – per mantenere quelle situazioni ‘da macchinetta del caffè’ che favoriscono il confronto, la conoscenza e la risoluzione dei problemi.

Insomma ci stai dicendo che proprio perché si lavora in remoto è necessario sentirsi sempre più parte di un team?

Spingo molto su questo aspetto perché le ultime ricerche, in particolare quella dell’ADP Research Institute per comprendere meglio le statistiche di Gallup sull”Engagement’, hanno messo in evidenza che maggiori livelli di coinvolgimento sono raggiunti all’interno dei team. In particolare in quelli che meglio permettono lo sviluppo delle persone e che favoriscono l’apporto di ognuno al gruppo e di conseguenza i risultati aziendali.

In conclusione che suggerimento daresti agli HR manager e agli imprenditori per trasformare questo momento in una opportunità di sperimentare una costruttiva esperienza di Smart Working?

Per praticare davvero lo Smart Working occorre superare il concetto di lavoro da remoto e interpretarlo come un percorso di trasformazione dell’organizzazione e della modalità di vivere il lavoro da parte delle persone. L’impressione è che anche le realtà più strutturate lo vivano senza una progettualità completa, con un approccio sempre gerarchico e poco collaborativo. Agire sulla flessibilità, responsabilizzazione e autonomia delle persone significa trasformare i lavoratori da ‘dipendenti’ – orientati e valutati in base al tempo di lavoro svolto – a ‘professionisti responsabili’ focalizzati e valutati in base ai risultati ottenuti.