Il libro condensa le principali esperienze dell’autore nel suo ruolo di Chief Technology Officer dell’azienda IMVU, società di videogiochi online, che l’hanno portato a sviluppare e teorizzare i concetti principali della metodologia Lean Startup, che combina i principi di Lean manufacturing (sviluppati da Toyota negli anni 80) al mondo delle startup.

Secondo l’autore, “l’imprenditorialità rappresenta una forma di gestione aziendale”, con le sue regole e i suoi processi da seguire, che serve per garantire alle startup la possibilità di sopravvivere all’impatto col mercato (quando la maggioranza delle aziende fallisce) e a crescere nel tempo.

La metodologia Lean startup è basata su cinque principi:

  1. gli imprenditori sono ovunque, non solo nel garage della Silicon Valley, ma in organizzazioni di qualsiasi settore e qualsiasi dimensione
  2. l’imprenditorialità – come detto – rappresenta una forma di management, utile soprattutto in contesti ad alta incertezza, come il mondo delle startup
  3. le startup imparano come costruire un business sostenibile attraverso il processo di validated learning, basato su continui esperimenti scientifici riguardanti l’attività dell’azienda
  4. l’attività fondamentale nella startup è quella di trasformare le idee in prodotti, misurare le risposte dei clienti e sulla base di queste decidere se proseguire con il loro piano aziendale o se modificarlo. Il processo viene definito Build-Measure-Learn dall’autore
  5. le startup necessitano di nuovi modelli di contabilità – innovation accounting– sviluppati per tenere traccia di indicatori come il tasso di crescita, le milestone e per prioritizzare il lavoro.

L’APPROCCIO VALIDATED LEARNING

Nella prima parte del libro, vision, Ries definisce la visione della startup, l’approccio di validated learning e l’importanza di condurre esperimenti scientifici per misurare il progresso. Una startup, secondo l’autore, “è un’istituzione creata dagli uomini con lo scopo di produrre beni o servizi in condizioni di estrema incertezza”.

Indipendentemente dal settore, posizione geografica o dimensione, l’obiettivo ultimo di ogni startup è quello di creare un business in grado di cambiare il mondo. Per raggiungere quell’obiettivo, ogni startup adotta una propria strategia, veicolata all’interno di un modello di business e seguendo una precisa roadmap per lo sviluppo. I prodotti (o servizi) della startup rappresentano la manifestazione (il risultato) delle due dimensioni precedenti.

Alla base di ogni attività, le startup devono validare due ipotesi:

  1. la capacità di creare valore per i propri clienti (value hypothesis);
  2. la capacità di far crescere il proprio business (growth hypothesis) sulla base della proposta di valore.

Per valutare queste due ipotesi, le startup effettuano i cosiddetti “salti della fede” (leaps of faith), testando attraverso l’interazione con i clienti se i propri prodotti creano valore e se la crescita è sostenibile, ovvero se i ricavi generati da ogni nuovo cliente superano i costi sostenuti per acquisirlo, o promuovere il proprio business. Per minimizzare il potenziale impatto negativo nei salti della fede, le startup spesso utilizzano esempi di analogie e contrasti (analogs & antilogs). Per il lancio dell’iPod, nel 2001, Apple ha potuto contare sull’analogia del Walkman – che all’epoca ha dimostrato la propensione dei clienti ad ascoltare musica in pubblico – e sul contrasto offerto da Napster, che ha dimostrato la propensione dei clienti a scaricare e condividere (non proprio legalmente) musica in formato digitale. Sulla base di queste ipotesi – già testate – Apple ha dovuto verificare se i propri clienti sarebbero stati disposti ad acquistare musica in formato digitale da ascoltare in pubblico.

IL BUILD-MEASURE-LEARN (BML) FRAMEWORK

Nella parte due – relativa alla direzione dell’azienda (steer), l’autore analizza il ruolo dei test e delle misure per testare le ipotesi. Per testare queste ultime, Ries propone di utilizzare il Build-Measure-Learn (BML) framework: la startup trasforma le idee in un prototipo, o Minimum Viable Product (MVP), che viene sottoposto ai clienti. I clienti, interagendo col prototipo, generano feedback sotto forma di dati qualitativi e quantitativi. Analizzando i dati è possibile apprendere nuove informazioni sulla base delle quali sviluppare nuove idee, modificare il prototipo e far ripartire il ciclo. L’obiettivo delle startup è quello di ridurre al più possibile la durata del ciclo BML per poter testare più idee possibili in un arco di tempo predefinito.

La qualità dell’MVP, e di conseguenza l’investimento richiesto per svilupparlo, dipendono dal cliente target. In alcuni casi, ad esempio, è necessario solo lo sviluppo di uno smoke test: pubblicizzare un prodotto o servizio che ancora non è disponibile. In altri casi, sono necessarie diverse iniziative: Dropbox, ad esempio, è riuscita a catturare l’attenzione dei primi clienti attraverso un video tutorial di 3 minuti in cui Drew Houston, il fondatore, illustrava il funzionamento del servizio.

I risultati delle interazioni dei clienti con la prima versione del prototipo producono i dati necessari per misurare lo sviluppo (baseline). Da lì, la startup può crescere prendendo una direzione tra:

  1. aumentare i profitti per singolo cliente;
  2. aumentare gli acquisti ripetuti del singolo cliente;
  3. aumentare la base clienti.

Una volta definiti gli indicatori su cui misurare lo sviluppo, l’azienda può testare – in serie – diverse modifiche circa le seguenti dimensioni: sviluppo prodotto, design, funzionalità, promozione, ecc. I risultati emersi dalle nuove interazioni, confrontate con la baseline, forniscono indicazioni sull’effettiva crescita, data dal raggiungimento di nuovi clienti (activation rate).

Come misurare i risultati di ogni singolo aggiornamento

Per misurare i risultati conseguiti con ogni singolo aggiornamento, è consigliato l’utilizzo dell’analisi “per coorti” (cohort analysis): al posto di misurare i principali indicatori come numero di clienti e numero di acquisti in i valori assoluti, l’analisi per coorti divide il totale delle interazioni in percentuali, così da poter illustrare le differenze di comportamento dei clienti in relazione con ogni singolo aggiornamento rilasciato nel tempo.

Come sviluppare esperimenti

Per gli esperimenti, è suggerito invece l’utilizzo di split test (o A/B test): diverse versioni dello stesso prodotto o servizio vengono mostrate a diversi gruppi di utenti allo stesso tempo. Tutte le differenze nei comportamenti all’interno dei diversi gruppi forniscono indicazioni sull’efficacia delle singole versioni presentate.

La gestione dei test

Per la gestione dei vari test, l’approccio Lean Startup segue il principio kanban, preso direttamente dalla metodologia Lean Manufacturing di Toyota: tutte le interazioni vengono catalogate in quattro categorie:

  1. backlog;
  2. in progress;
  3. completato;
  4. validato.

Tutte le interazioni devono passare attraverso le quattro fasi. Se una delle fasi è completa, nessuna nuova interazione può essere aggiunta finché quelle attuali non passano a quella successiva, sempre nell’ottica di minimizzare i tempi dei cicli per ogni test.

Una volta sviluppate diverse interazioni, e sulla base dell’evoluzione dei risultati a partire dalla baseline, una startup può verificare il tasso di crescita: se sufficiente, può scalare la produzione e rilasciare un prodotto o servizio completo. Se il tasso di crescita, invece, dimostra risultati non soddisfacenti, la startup può decidere di virare (pivot) verso un nuovo modello di business, e ricominciare da capo le interazioni. La scelta tra le due opzioni è critica, e spesso determina il destino della startup stessa. Secondo Ries, esistono diverse tipologie di pivot, attorno a diverse dimensioni:

  1. Zoom-in, quando l’offerta di una startup si caratterizza attorno ad una singola feature precedentemente offerta all’interno di un pacchetto;
  2. Zoom-out, quando attorno ad una singola feature viene sviluppato un intero pacchetto di funzionalità;
  3. Customer segment, quando viene cambiato il segmento clienti di riferimento;
  4. Customer need, quando cambia il bisogno del segmento clienti di riferimento;
  5. Platform, quando un’applicazione diventa una piattaforma per due diversi gruppi di utenti, e viceversa;
  6. Business architecture, quando cambia la strategia di business (leadership di costo, differenziazione) o i clienti di riferimento (B2B o B2C);
  7. Value capture, quando cambiano le fonti dei ricavi della startup;
  8. Engine of growth, quando cambia la strategia di crescita della startup;
  9. Channel, quando cambiano i canali di vendita o distribuzione;
  10. Technology, quando cambia l’offerta tecnologica della startup.

LA CRESCITA DI UNA STARTUP NEL LUNGO PERIODO

Nella terza parte – accelerate – Ries descrive le modalità per garantire la crescita della startup, una volta validato il modello di business. Per scalare le attività produttive, è consigliabile utilizzare un sistema in piccoli lotti (small batch): rispetto alla produzione in scala, i piccoli lotti consentono di identificare in tempi molto brevi tutte le problematiche emergenti, e di prendere decisioni tempestive per la loro correzione. La modalità di continua interazione e correzione è definita a “rilascio continuo” (continuous deployment). Questa modalità funziona nel mondo manifatturiero, ma è sempre più adottata nel mondo software e in altre industrie.

Tre sono i modelli per sviluppare la crescita.

  1. il modello sticky, dove le startup si concentrano sul creare rapporti di lunga durata con i propri clienti: il principale indicatore di riferimento è il churn rate (tasso di abbandono), la percentuale di clienti che abbandona i prodotti e servizi offerti in relazione ad ogni nuovo rilascio 
  2. il modello virale, basato sull’esposizione e la trasmissione all’interno di una rete: l’indicatore di riferimento è il viral coefficient (coefficiente di viralità), che misura il numero di nuovi utenti generati da ogni singolo utente
  3. il modello paid, basato sulla promozione e la pubblicità a pagamento: l’indicatore di riferimento è il customer lifetime value (LTV), il valore corrisposto da ogni singolo cliente per tutta la durata della sua “vita utile”. Questo indicatore è utilizzato per determinare quanto la startup può spendere in pubblicità, pro capite.

Una volta raggiunta la crescita, la startup deve continuare a garantire la propria capacità a innovare, e rinnovarsi nel tempo. Per rispondere a queste esigenze, le startup hanno bisogno di tre elementi:

  1. la disponibilità di risorse limitate, ma sicure: garantisce continuità nei progetti
  2. l’organizzazione in piccoli team caratterizzati da alti livelli di autorità: garantiscono la velocità di esecuzione
  3. l’utilizzo di incentivi personali legati ai risultati dei singoli progetti: garantiscono l’impegno nel portare a termine i progetti di tutto il personale coinvolto.

LE NOSTRE CONSIDERAZIONI

L’intento del libro è quello di fornire riferimenti teorici e strumenti per la gestione delle startup. Queste, sebbene molto diverse per impostazione dalle aziende tradizionali, necessitano di linee guida per incrementare i tassi di sopravvivenza (circa il 75% delle startup fallisce entro tre anni dalla fondazione), e per ottimizzare le loro attività nelle fasi di creazione, sviluppo e crescita.

L’autore prende spunto dai principi di produzione “lean” del mondo manifatturiero, rese famose dal sistema produttivo che ha guidato l’espansione globale del gruppo Toyota degli anni 70 e 80, come alternativa predominante modello fordista adottato nell’industria dell’Automotive. Combinando i principi di produzione in piccola scala con la modalità di sviluppo agile derivata dal mondo del software, Ries riesce a creare una serie principi per guidare attività delle startup in tutte le sue fasi.

La logica di fondo è quella di minimizzare gli investimenti in tempi e risorse necessari per sviluppare i prodotti e i servizi della startup, e di condurre esperimenti continui basati su dati reali dovuti dall’interazione con i clienti.

A livello accademico, gli studi di Ries si basano sui principi di customer Development sviluppati da Steve Blank – docente dello stesso Ries – nel libro “The Four Steps to Epiphany”, e dagli studi del prof. Thomas Eisenmann sull’”Hypothesis-driven Entrepreneurship”.

Attorno a questi principi, l’autore è riuscito a creare una comunità di professionisti, imprenditori e non, seguaci della metodologia Lean Startup, principalmente negli Stati Uniti, ma non solo. Negli ultimi anni, i principi lean sono stati estesi, creando legami con i temi relativi alla user experience e all’innovazione in genere, soprattutto quella di tipo disruptive teorizzata dal prof. Christensen.

Ovviamente, il libro è decisamente consigliato per chiunque abbia intenzione di avviare un’attività imprenditoriale – soprattutto una startup – ma anche per chi si trovi incaricato a gestire un progetto innovativo all’interno della propria attività di tutti i giorni.

IL LIBRO IN PILLOLE

  • I principi del metodo Lean Startup sono: 1) gli imprenditori sono ovunque; 2) l’imprenditorialità è una forma di gestione aziendale; 3) le startup imparano attraverso il metodo di validated learning; 4) il processo di apprendimento è il framework build-measure-learn; e 5) le startup richiedono l’adozione di principi contabili specifici per misurare l’innovazione (innovation accounting)
  • Una startup è un’entità creata per sviluppare prodotti e servizi in condizioni di estrema incertezza, indipendentemente dal settore, area geografica e dalla dimensione
  • Le startup devono testare le ipotesi di creazione del valore e di crescita del valore attraverso esperimenti scientifici.
  • I test possono essere effettuati attraverso l’interazione dei clienti con dei prototipi, o minimum viable product (MVP), la cui qualità dipende dai clienti target
  • Nel testare le ipotesi, l’obiettivo delle startup è di minimizzare la durata del framework Build-Measure-Learn (BML) per velocizzare l’apprendimento e il numero di interazioni disponibili.
  • I risultati degli esperimenti devono essere riportati per coorti, per verificare i cambiamenti nel comportamento dei clienti sulla base delle singole interazioni. Evitare di misurare utilizzando i numeri aggregati, perché non forniscono indicazioni circa l’effettiva crescita della startup.
  • I risultati degli esperimenti permettono alla startup di decidere se proseguire sulla stessa strada, scalando la produzione, oppure se modificare il modello di business attraverso un pivot.
  • La crescita delle startup può essere virale, sticky paid, in base ai meccanismi di diffusione adottati (network, clienti di lungo periodo o utilizzo della pubblicità). Ogni modalità ha degli indicatori di riferimento (viral coefficient, churn rate Customer Lifetime Value).