Scott Lenet lo aveva dichiarato a Forbes all’inizio del 2020:

“La reputazione conta più di quanto si pensi nell’innovazione aziendale.”

Il concetto di reputazione aziendale, così come i suoi metodi e parametri di misurazione, sono cambiati e si sono evoluti nel corso dei decenni, così come la sua influenza nel processo di Innovazione aziendale.

In questo articolo a cura di Federico Moretti e Simone Pizzoglio, Head of Finance & Utilities BU presso BVA Doxa proviamo a comprendere questa evoluzione in profondità.

Reputazione aziendale e brand equity

I sistemi di misurazione della reputazione aziendale nascono verso la fine degli anni ‘90. Prima di tale data, i diversi fattori che compongono questo asset intangibile venivano raggruppati all’interno della cosiddetta immagine aziendale. Con la progressiva importanza e visibilità di tali tematiche, si è passati a determinare la brand equity, il valore della marca, separandola dal concetto di reputazione aziendale.

Tale distinzione si è consolidata a cavallo tra gli anni ‘90 ed il 2000 con la definizione di metodologie, sostenute da basi accademiche, focalizzate ad analizzare la reputazione aziendale.

All’inizio del 21° secolo, con l’affermarsi di quello che veniva definito come web 2.0, è aumentata la possibilità per le persone di interagire rapidamente ed efficacemente e discutere della reputazione dei vari brand. A quel tempo si andava formando anche la “coscienza” di una community di consumatori critici nei confronti delle condotte e del potere dei grandi marchi. Critica e  contestazione che raggiunse il suo apice a seguito del libro No Logo di Naomi Klein. Con l’esplosione dei primi grandi scandali reputazionali, iniziarono le prime condanne per la condotta di alcune note multinazionali. Un esempio eclatante contenuto nel libro è quello di Nike in merito allo sfruttamento minorile nel sud est asiatico per la cucitura di palloni da calcio, scarpe e altri prodotti con il suo logo.

Con l’intensificazione delle interazioni tra aziende e consumatori, definita da Grunig: two-way communication (Grunig, Hunt, 1984), che alleggerisce il ruolo della classica pubblicità e propaganda aziendale, emergono nuove occasioni per fare analisi di tipo reputazionale. Nascono quindi alcuni modelli e ranking tra cui quelli di Reputation Institute o di Reputation Management. Questi modelli iniziano a far leva sulla reputazione in quanto percezione che gli utenti hanno dei brand, esaltando soprattutto alcune dimensioni di capacità di comunicazione empatica. Non a caso Jeff Bezos (fondatore di Amazon) ancor oggi sostiene che:

“Your brand is what other people say about you when you’re not in the room.”

 

Reputazione Immediata e Reputazione Sedimentata

Alla fine degli anni 2000, l’affermarsi dei social media ha fatto sì che emergesse il concetto di reputazione immediata, spesso caratterizzata da singoli eventi ad alta risonanza che provocano un cambiamento reputazionale all’azienda (spesso in negativo), differente da quella sedimentata, che il brand ha costruito nel lungo periodo. Ci sono numerosi esempi di scandali basati su errori di comunicazione che hanno danneggiato il valore del marchio nel breve periodo.

Un caso che ha fatto scalpore è quello di Dolce&Gabbana in Cina esploso dopo l’uscita di tre video promozionali realizzati per la campagna di un’importante importante sfilata che si sarebbe dovuta tenere a Shanghai a fine novembre 2018. Questi spot raffiguravano con un’accezione stereotipata una donna cinese che cerca di mangiare (con non poche difficoltà) alcuni piatti tipici italiani – pizza, spaghetti e cannolo – con le bacchette. Per questi spot, D&G è stata accusata di razzismo, sessismo, e non rispetto della cultura cinese, provocando numerosi boicottaggi, l’annullamento della sfilata sopra citata e conseguentemente grossi danni di immagine della casa di alta moda italiana, non solo sul mercato orientale.

Anche Barilla ha affrontato un caso di notevole impatto mediatico negativo sulla propria reputazione aziendale. Il 25 settembre 2013 il CEO Guido Barilla, durante un’intervista a Radio24, sostenne la volontà di Barilla di continuare a produrre spot televisivi utilizzando l’immagine della cosiddetta famiglia tradizionale. Numerose polemiche ed azioni di boicottaggio sono emerse dopo questa dichiarazione. Al di là del tentativo di gestire questa crisi nel breve periodo, Barilla negli anni ha cercato di rimodulare la propria immagine e reputazione portando avanti, tra le altre, attività di Diversity Management in azienda.

Questi eventi, non solo minano la reputazione del brand nel breve termine, con picchi negativi che solitamente calano poco dopo, ma se non gestiti correttamente possono avere impatto anche sulla reputazione aziendale di lungo periodo. Barilla per esempio, a seguito dello scandalo appena riportato, per qualche settimana registrò un calo del 30% sulle vendite.

Un’altra dimensione importante da tenere in considerazione quando si parla di reputazione aziendale è l’industry – il settore – di appartenenza dell’azienda. Il settore farmaceutico per esempio, ed in particolare le big pharma, non godono di una buona reputazione, al pari dell’industria bancaria. In quest’ultima, in particolare, si nota una dicotomia tra l’elevata reputazione e la fiducia riposta verso il proprio istituto bancario, mentre una scarsa attitudine verso gli altri istituti e il sistema bancario in generale.

Negli ultimi decenni le modalità di misurazione della reputazione si sono moltiplicate. Ai classici questionari, si sono aggiunti numerosi strumenti utilizzabili sul web. Durante la pandemia in corso, Doxa ha notato un importante cambio di paradigma. Diversamente dagli anni precedenti in cui la reputazione era qualcosa di costruito sul passato, che rappresentava quello che una realtà aziendale era stata capace di fare finora, in questo periodo si è osservato che i consumatori considerano la reputazione e la fiducia in un brand, sulla base di quello che il brand stesso sarà in grado di dare e formare in futuro.

Il caso più eclatante è quello di Tesla. La società di Elon Musk ha una reputazione molto alta ed è in grado di attrarre più capitali delle altre tradizionali compagnie automobilistiche (es. Mercedes, BMW, Volkswagen), grazie ai suoi prodotti ed altri asset come l’ingegneria applicata, ma soprattutto grazie alle promesse di cosa sarà in grado di fare ed offrire in futuro. Tesla sarà poi in grado di mantenere le promesse? Questo non possiamo saperlo ora. L’approccio adottato – cioè l’idea che ciò che farai in futuro rappresenta maggiormente la tua reputazione complessiva rispetto a quello che hai fatto in passato – è molto importante. Questi cambiamenti di pensiero sono stati sistematizzati ascoltando i consumatori. Chiedendo agli under 30 il loro top brand automobilistico, moltissimi di loro rispondono che vorrebbero una Tesla.

In riferimento alla reputazione, oggigiorno entra in gioco un concetto di notevole importanza; la capacità di essere sostenibili, secondo le logiche ed i criteri di Environmental, Social, e Governance (ESG) sustainability. Questo nuovo modello di concepire la reputazione aziendale è sposato sia dai più giovani ma anche dalle altre generazioni. Secondo Simone Pizzoglio, l’avvento della pandemia ed il cambio di pensiero sono due fattori concomitanti. Quando questa situazione legata al COVID si sarà stabilizzata, inevitabilmente alcune cose saranno cambiate in modo definitivo. Le persone ed i brand hanno imparato ad adattarsi e a rivedere certi modelli del passato che non potevano più funzionare. È quindi fondamentale per le aziende sapersi adattare ed evolvere.

Adattamento ed evoluzione che non sono concetti legati allo sviluppo di un’azienda post-pandemia. A tal proposito, diversi sono i casi di brand che, nonostante il successo lungo diversi decenni, sono crollati fino a quasi sparire. Kodak, ad esempio, nonostante il 96% di quota di mercato dei rullini, a partire dagli anni ‘90 negli anni ha progressivamente perso terreno a seguito dell’introduzione su larga scala delle macchine fotografiche digitali, che hanno minato la redditività del loro modello di business (sebbene fosse stata proprio Kodak la prima ad investire nella tecnologia digitale, già negli anni ‘70). Lo stesso è successo a Nokia nella seconda metà degli anni 2000. Esempi di questo tipo si possono poi declinare ad altri settori oltre a quello tecnologico, come il food o il settore energetico.

Alcuni brand hanno saputo sopravvivere alla trasformazione digitale ma hanno poi dovuto competere con numerosi marchi emergenti, tra cui Amazon, che hanno guadagnato sempre più quote di mercato e sorpassato le big degli anni ‘90. Pan American World Airways, la più grande e importante compagnia aerea degli Stati Uniti, fondata nel 1927, è fallita nel 1991.

Ciò che si può trarre da questi esempi è che è più importante saper affrontare il futuro e innovare piuttosto che “cullarsi” su quello che si è fatto nel passato; questo è probabilmente il motivo per cui oggi anche i consumatori stanno evolvendo il loro modo di intendere la reputazione legato a brand ed aziende.

 

Reputazione e Innovazione

Se, semplificando, la reputazione nel 2021 si fonda non tanto su quanto hai fatto nel passato ma soprattutto sulla promessa di quello che sarai in grado di fare in futuro, è fondamentale per le aziende trasmettere al mercato la propria capacità di innovazione. Capacità che deve essere credibile e soprattutto deve essere messa in atto: le promesse non devono essere assolutamente disattese.

Simone Pizzoglio sostiene che, al momento, proporre (progetti di) innovazione al mercato incontra le maggiori resistenze a livello organizzativo e culturale. Soprattutto in aziende di grandi dimensioni, dove la struttura organizzativa è più complessa e le dinamiche interne hanno sempre una maggiore influenza. Se da un lato l’innovazione è quindi spesso ostacolata da problemi di tipo organizzativo, e le idee dei consulenti non riescono ad essere gestite correttamente dal cliente, d’altro anche i consulenti frequentemente non sono in grado di trasmettere il reale valore ed il reale impatto di un progetto di innovazione.

C’è un altro aspetto importante da segnalare: l’Italia ha un modello di innovazione sicuramente differente da altri paesi come per esempio gli Stati Uniti. Ogni modello di innovazione va considerato infatti nel contesto culturale e in quello normativo-legale del paese in questione. In Italia per esempio la cultura dell’errore non è condivisa da tutti gli attori in gioco, soprattutto dagli HR, così come un mercato lavorativo poco dinamico è una dato di fatto. Sicuramente la scarsa mobilità del mercato (soprattutto di manager esperti) che potrebbe portare a una cross-contaminazione tra industries rappresenta un fattore limitante all’innovazione delle aziende del paese.

In riferimento all’accettazione della cultura dell’errore, Simone Pizzoglio, ricorda un suo incontro di 20 anni fa con l’ingegnere capo che presiedeva i nuovi progetti di STMicroelectronics che, a proposito di cultura dell’errore che permette l’innovazione raccontava come su 100 progetti messi in campo, erano già consapevoli a priori che 98 sarebbero falliti. Egli aggiunse però che con l’invenzione della tecnologia del Telepass, sono riusciti a (ri)pagare negli anni tutti gli altri studi e prove di progetti.

Simone consiglia inoltre di non cercare da parte del mercato e da parte dei consumatori indicazioni su come si fa innovazione perché nessun consumatore ha saputo immaginare l’iPhone prima dell’esistenza dell’Iphone stesso. Sostiene inoltre che le richieste dei clienti non devono essere l’unica fonte e motivo di innovazione; i consulenti devono analizzare e misurare la reputazione sedimentata per portare miglioramenti futuri.

L’innovazione deve essere valutata inoltre sotto il profilo dei settori e delle attività a cui va in sostituzione. Il mercato dello streaming per esempio, è diventato in pochi anni dominante e sta invadendo chi fa broadcasting ma anche produzione: attualmente i principali produttori cinematografici sono Amazon e Netflix, tutti i grandi attori lavorano per loro.

Le innovazioni cambiano il nostro modo di vivere. Pensiamo ad un elettrodomestico come il frigorifero; una delle imprese più redditizie e a maggiore profittabilità nelle città fino agli anni ‘20 era la cosiddetta industria del “ghiaccio”. La produzione e distribuzione del ghiaccio era un’attività con alti costi d’entrata – come definiti da Michael Porter – ma con una redditività enorme (rapportato in termini attuali, l’intero settore valeva, verso la fine del XIX secolo, qualche decina di Miliardi di Dollari). Questa attività è progressivamente sparita a seguito dell’introduzione di una nuova base tecnologica per refrigerare e creare freddo, sfruttando la corrente elettrica domestica – il frigorifero.

Questo esempio ci insegna che concentrandosi eccessivamente sulla domanda in modo non corretto, cioè non andando a vedere quali potrebbero essere i bisogni inespressi, non si riesce a comprendere i processi che devono essere rinnovati o i bisogni da tenere in considerazione per poi innescare l’innovazione.

In conclusione, per analizzare e definire la reputazione, bisogna avere dei buoni modelli interpretativi e buone competenze di analisi, ma soprattutto creatività, meglio se espressa da persone di generazioni diverse. Proprio il coinvolgimento in azienda di persone di generazioni diverse, potrebbe essere un elemento portatore di innovazione. Al contrario, questa ricchezza viene spesso considerata e valutata con ostilità dalle aziende.